L’inaccettabile
La vita ci offre tante situazioni e condizioni inaccettabili.
Se solo mi soffermo me ne vengono in mente tante ne cito alcune: la povertà in alcune zone del mondo e la ricchezza in altre, la libertà assoluta e la privazione altrettanto assoluta. La perdita del proprio benessere fisico, psichico e sociale detta comunemente “malattia” soprattutto se grave, incurabile.
Quest’ultima è universale, umana e parte della nostra esistenza umana. Mi soffermo su questa condizione descrivendo i momenti che la caratterizzano.
Il momento iniziale del cammino di un malato è segnato dall’ingresso in ospedale. Un luogo complesso, fatto di tempi, attese, ruoli e un linguaggio non sempre comprensibile, ma a cui si risponde con reverenza e attenzione affinché si possa godere della simpatia di chi ti accoglie (medico, infermiere).
Spesso non si comprendono i termini tecnici, e si rimane silenziosi fingendo di capire. Il personale ti fa diventare un numero, una malattia, perdi la tua identità, se sei genitore di un bambino ti chiamano “mamma”, lo fanno per comodità e per velocizzare ogni contatto forse perché memorizzare il nome è incompatibile con la quantità di pazienti e la scarsità di personale.
Si accetta tutto non si protesta pur sentendo la frustrazione la paura di parlare, chiedere. Nel corso della permanenza si osservano usi e costumi, come l’orario dei pasti inaccettabile perché non si ha fame o perché il cibo è immangiabile.
Il ritrovarsi a dormire all’improvviso insieme ad altre persone “dei perfetti sconosciuti” con cui si ha in comune il bisogno di guarire e di andare via al più presto. La relazione è senza filtri, spesso ci si da del “tu” e si entra velocemente in intimità: si mangia, si dorme, si usa lo stesso bagno, ci si racconta senza le solite formalità.
Gli esami, le visite specialistiche per addentrarsi nel “facciamo gli accertamenti per capire cosa c’è”. E qui la produzione di vissuti, emozioni è tanta come: la paura, la sorpresa, l’attesa, l’euforia, la speranza.
La comunicazione della diagnosi è il tempo della verità e spesso della tenuta soprattutto se la malattia è grave o come si usa nel gergo medico complessa. E’ un momento che cambia la vita è un ricordo che si imprime per sempre nella memoria e ogni volta che lo rievochi scandisci ogni vocale, ogni frammento di immagine con tutti i particolari.
L’ora, il tempo, i rumori, le parole usate, le posizioni, il numero delle persone presenti, le espressioni e tanto altro ancora.
Pur essendo così ricco, catartico questo tempo è lasciato al buon cuore del medico, all’approssimazione e nulla viene preparato. E’ come se ti mettessero una bomba in mano, scoppia e poi devi ricomporti da solo.
Trovo inaccettabile tutto questo! E’ inaccettabile che nei reparti di oncologia, pediatria, ecc. non ci sia lo psicologo che sostenga la persona in questo cammino ricco di emozioni negative.
Un professionista che prepari un setting per la comunicazione della diagnosi, supporti gli operatori sanitari esposti continuamente alla sofferenza e alla desensibilizzazione emotiva. E’ inaccettabile che tutto questo si svolga in strutture ospedaliere di Milano e non solo che si presentano al mondo come eccellenze.
Da cinque anni con il progetto “Psicologo in Hospital Kids” diciamo che è inaccettabile che un genitore, padre, madre che sia non abbiano un sostegno psicologico.